Le Sezioni Unite sul regime di inammissibilità della prova testimoniale di un contratto che deve essere provato per iscritto.
Paolo Mascitelli • 31 agosto 2020
Le Sezioni Unite chiariscono i dubbi sulla portata precettiva del divieto di prova testimoniale del contratto nel giudizio civile e dettano le regole sulla eccepibilità e rilevabilità del mezzo istruttorio e della sua nullità. Cassazione Sentenza n. 16723/2020
Il caso
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Nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ottenuto da una società di vendita al dettaglio a fronte di merce non pagata, l’opponente, al fine di dimostrare gli accordi estintivi intercorsi tra le parti, ricorreva alla prova per testimoniale ed otteneva una pronuncia favorevole in primo grado proprio all’escussione della suddetta prova.
In appello si ribaltava l’esito, dato che la Corte rilevava d’ufficio l’inammissibilità della prova per effetto di quanto statuito dall’art 2725 cc., qualificandosi come di natura contrattuale l’eventuale accordo (transattivo) intercorso tra le parti e quindi da redigere necessariamente in forma scritta.
La questione quindi veniva impugnata in Cassazione, presso cui il convenuto opposto (attore sostanziale rispetto alla domanda), riproponeva la questione, ben dibattuta, relativa alla dedotta ammissibilità della prova testimoniale dei contratti per i quali la forma scritta è richiesta soltanto ad probationem.
La Corte di Cassazione, constatata l’esistenza di pronunce difformi da parte delle sezioni semplici, avocava il caso alle Sezioni Unite civili, anche tenuto conto dell’importanza della questione da dirimere.
Contratto con forma scritta ad probationem e ad substantiam.
Da osservare che in ordine alla prova testimoniale dei contratti, si contrapponevano due orientamenti.
Secondo l’indirizzo prevalente, solo per i contratti con forma scritta ad substantiam vige il regime di rigida inammissibilità della prova per testimoni, salvo che nelle ipotesi tassative di perdita incolpevole del documento; vizio rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado.
Per i contratti a forma scritta ad probationem, invece, la prova testimoniale sarebbe inammissibile ma solo in senso stretto, ovvero esclusivamente se rilevata dalla parte interessata entro il termine dell’art. 157 comma 2 cpc, nella prima istanza o difesa successiva al suo configurarsi, “con la conseguenza che la prova ammessa oltre i limiti predetti deve ritenersi altrimenti ritualmente acquisita, in conformità alle regole generali in tema di nullità di carattere relativo riguardanti l’ammissione e l’espletamento della prova in violazione degli artt 2721 e ss c.c.
A tale orientamento si contrapponevano alcune pronunce della Cassazione, secondo cui il regime di inammissibilità non poteva applicarsi diversamente a seconda della natura del contratto, dovendosi ritenere che “quando per legge o per volontà delle parti, sia prevista per un certo contratto la forma scritta ad probationem, la prova testimoniale che abbia ad oggetto, implicitamente od esplicitamente, l’esistenza del medesimo è inammissibile, salvo che non sia volta a dimostrare la perdita incolpevole del documento, così come è inammissibile la connessa prova per presunzioni”.
La soluzione delle Sezioni Unite
Con l’importante pronuncia in commento, le Sezioni Unite dichiarano di aderire al primo indirizzo sopra sintetizzato, ovvero a quello che prevede un criterio distintivo tra contratti ad substantiam ed a probationem.
Questo il principio di diritto.
“L'inammissibilità della prova testimoniale di un contratto che deve essere provato per iscritto, ai sensi dell'art. 2725, comma 1, c. c., attenendo alla tutela processuale di interessi privati, non può essere rilevata d'ufficio, ma deve essere eccepita dalla parte interessata prima dell'ammissione del mezzo istruttorio; qualora, nonostante l'eccezione d'inammissibilità, la prova sia stata egualmente assunta, è onere della parte interessata opporne la nullità secondo le modalità dettate dall'art. 157, comma 2, c.p.c., rimanendo altrimenti la stessa ritualmente acquisita, senza che detta nullità possa più essere fatta valere in sede di impugnazione.”
Ciò sta a significare che la parte che intende opporsi alla istanza di ammissione della prova testimoniale di un contratto con forma scritta ad probationem, se non vorrà che si verifichi la sanatoria del vizio, dovrà
- sollevare l’eccezione secondo le modalità di cui all’art. 157 comma 2 cpc, ovvero nella prima istanza o difesa successiva all’istanza stessa
- riproporre la stessa eccezione in sede di precisazione delle conclusioni;
- dedurre esplicitamente la questione in appello.

Il termine "sharenting" si riferisce alla pratica dei genitori di condividere costantemente contenuti online riguardanti i propri figli, come foto, video e ecografie. Questo neologismo deriva dall'unione delle parole inglesi "share" (condividere) e "parenting" (genitorialità). La pubblicazione in rete delle foto/video dei propri figli può comportare numerosi rischi che minacciano la privacy e la sicurezza dei minori tra cui: violazione della privacy e della riservatezza dei dati personali anche sensibili; mancata tutela dell’immagine del minore che a causa della permanenza in rete e dell’inevitabile perdita di controllo da parte dei genitore sul contenuto postato può essere utilizzata per fini impropri da parte di terzi (es. pedopornografia, ritorsioni etc); ripercussioni psicologiche sul minore rischiando di ritrovarsi con un'identità digitale costruita su immagini di cui non ha dato il proprio consenso, rischio di adescamento da parte di malintenzionati che possono sfruttare dati ed abitudini dei minori esposti online. Incremento episodi cyberbullismo E’ importante prestare attenzione quando si decide di pubblicare tali contenuti e seguire i suggerimenti forniti dal Garante della privacy tra cui: ✔️rendere irriconoscibile il viso del minore (ad esempio, utilizzando programmi di grafica per "pixellare" i volti) ✔️coprire i volti con una “faccina” emoticon; ✔️limitare le impostazioni di visibilità delle immagini sui social network solo alle persone che si conoscono o che siano affidabili e non le condividano senza permesso nel caso di invio su programma di messagistica istantanea; ✔️evitare la creazione di un account social dedicato al minore; ✔️leggere e comprendere le informative sulla privacy dei social network su cui carichiamo le fotografie.

La retribuzione minima stabilita da un contratto collettivo nazionale sottoscritto dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative non basta a garantire il rispetto del principio di sufficienza e proporzionalità dettato dall’articolo 36 della Costituzione. La Corte di cassazione ha stabilito che anche in presenza di un accordo collettivo, spetta in ogni caso al giudice il potere di valutare la congruità del salario minimo stabilito dalle parti sociali, mediante una verifica costituzionalmente orientata di tale misura. Dalla "corretta lettura" dell’articolo 36 della Costituzione, infatti, la Corte giunge a ricavare il principio secondo cui ciascun lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Secondo la Corte (sentenze 27711 e 27769 del 2 ottobre 2023) l'articolo 36 della Costituzione evidenzia due diritti distinti ma interconnessi: il diritto a una retribuzione " proporzionata " in base alla quantità e qualità del lavoro e il diritto a una retribuzione " sufficiente" che assicuri una vita dignitosa per il lavoratore e la sua famiglia. La valutazione della congruità del salario minimo diventa, quindi, una valutazione flessibile dipendente dal contesto economico e sociale in evoluzione. La Corte ha introdotto un nuovo punto di vista sostenendo che per determinare il salario minimo non si debba considerare solo la soglia di povertà assoluta calcolata dall'Istat ma anche i concetti di sufficienza e proporzionalità. La Corte fa riferimento alla direttiva dell'Unione Europea sui salari adeguati che incoraggia gli Stati membri a garantire non solo i bisogni essenziali ma anche la partecipazione a attività culturali, educative e sociali. La valutazione che il giudice è chiamato a svolgere in merito alla congruità del salario minimo è dunque una valutazione fluida , dipendente dal contesto economico in evoluzione e non cristallizzata in parametri intangibili. Secondo gli Ermellini, quindi, si deve garantire al lavoratore una vita non solo non povera, ma anche dignitosa. In questo senso la Corte fa espresso riferimento alla recente direttiva Ue sui salari adeguati (n. 2022/2041) che sprona gli Stati membri a dotarsi di legislazioni nazionali orientate a garantire non solo il soddisfacimento di meri bisogni essenziali (quali cibo, alloggio, e così via) ma anche la legittima partecipazione ad attività culturali, educative e sociali. La direttiva Ue propone alcuni parametri per adeguare il salario minimo, come il potere d'acquisto dei salari rispetto al costo della vita e la distribuzione dei salari. Questo rappresenta un cambiamento rispetto alla precedente giurisprudenza che si concentrava su parametri come l'indice Istat di povertà o l'importo della Naspi o del reddito di cittadinanza. La Corte di Cassazione invita a valutare con prudenza gli scostamenti dalla contrattazione collettiva, ma le recenti sentenze rischiano di creare incertezza , passando dalla certezza dei contratti collettivi a un potenziale eccesso di discrezionalità nelle aule di tribunale. La massima: "Il giudice può discostarsi dal Contratto collettivo Il giudice deve fare riferimento innanzitutto alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può tuttavia motivatamente discostarsi, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’articolo 36 della Costituzione. Per la determinazione del giusto salario minimo il giudice può usare come parametro la retribuzione stabilita in altri contratti collettivi di settori affini e può fare altresì riferimento a indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla direttiva Ue 2022/2041 del 19 ottobre 2022. Cassazione civile, sez. lavoro, 2 ottobre 2023 n. 27711 e n. 27769" Di altro avviso è il Tribunale di Milano che invece richiama espressamente la "prudenza" nel discostarsi dal salario indicato dal CCNL leader: "Ove la retribuzione prevista nel contratto di lavoro risulti inferiore alla soglia minima di sufficienza in base all’articolo 36 della Costituzione, il giudice adegua la retribuzione secondo i criteri costituzionalmente garantiti, con valutazione discrezionale. Ove però la retribuzione sia prevista da un contratto collettivo, il giudice è tenuto a usare tale discrezionalità con la massima prudenza, cura e attenzione e comunque con adeguata motivazione, giacché difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche, politiche e sindacali sottese all’intero assetto degli interessi concordato dalle parti sociali nel confronto che porta alla stipulazione del contratto collettivo. Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, 21 febbraio 2023
Secondo la Cassazione n. 14760/22 è l egittimo il licenziamento della cassiera di un supermercato che per vincere i premi "cd fedeltà" carica i punti sulla propria carta, quando i clienti abbiano dimenticato o non abbiano proprio la tessera. Il caso A fronte del licenziamento disciplinare subito per i fatti in premessa, la dipendente assumeva a propria difesa la propria estraneità, deducendo che negli orari e nei giorni in cui risultavano eseguiti i fatti, ella si era alzata dalla propria postazione. I giudici di merito respingevano l'impugnazione, facendo gravare sulla dipendente l'onere della prova esimente, ritenendo già comprovata in via documentale la prova della giusta causa, in quanto tale fatto di per sé mina alla radice il rapporto fiduciario anche in ottica futura. Approdati dinanzi al giudice di legittimità, la Cassazione ha concluso per la legittimità della sanzione in funzione anche degli obblighi aziendali discendenti dal particolare rapporto di lavoro esistente tra le parti.T
La Cassazione con ordinanza 5077/2021 rigetta il ricorso della ex moglie ed esclude il diritto all'assegno di divorzio, ribadendo le motivazioni già affermate dai giudici di secondo grado. Le indagini difensive del marito erano infatti in grado di fornire prova del fatto che la donna, nonostante le dimissioni formali al proprio datore di lavoro, continuava a prestare di fatto servizio nello studio professionale. Inoltre i problemi di salujte accusati dalla donna quali impedimenti per costituire forza lavoro autonoma e garantirsi un impiego, non si dimostrano fondati in quanto risulta essere nelle piene capacità lavorative.