Il condominio può impedirmi di possedere animali domestici?
Paolo Mascitelli • 15 settembre 2020
Il nostro animale domestico può essere oggetto di liti e controversie tra vicini di casa, soprattutto se si tratta di appartamenti situati in condominio in cui è inevitabile la condivisione di spazi
Vivere in un ambiete sereno e privo di rancori è possibile anche tra vicini di casa, purchè sia premura di tutti i condomini rispettare il regolamento condominiale e conoscere la legge n. 220 del 2012 che presenta 32 articoli dedicati alla gestione degli spazi comuni e dei diritti esercitabili da essi.
Cos'è esattamente il regolamento condominiale?
Una definizione precisa e univoca di regolamento condominiale non sussiste nel Codice Civile o in altre leggi speciali, tuttavia l’art 1138 cc stabilisce che: “Quando in un edificio il numero dei condomini è superiore a dieci, deve essere formato un regolamento, il quale contenga le norme circa l’uso delle cose comuni e la ripartizione delle spese, secondo i diritti e gli obblighi spettanti a ciascun condomino, nonché le norme per la tutela del decoro dell’edificio e quelle relative all’amministrazione”.
Il regolamento si potrebbe dunque definire come quell’atto obbligatorio contenente tutte le norme che regolano l’amministrazione del condominio: l’uso delle parti comuni, la ripartizione delle spese tra condomini, oltre che i diritti e gli obblighi tra ciascuno di loro.
Il regolamento condominiale può essere assembleare, quando viene deliberato dall'assemblea condominiale, oppure contrattuale, quando viene predisposto dal costruttore ed allegato agli atti d'acquisto dell'immobile. E' importante conoscere questa differenza e sapere quale dei due vige nel nostro condominio; in caso di regolamento contrattuale infatti le norme vengono implicitamente accettate dal condomino già al momento dell'acquisto, e possono essere modificate soltanto con il consenso di tutti i condomini.
La legge n. 220 del 2012
Il legislatore ha sancito nella legge 220/2012 il principio secondo cui è possibile introdurre in condominio animali domestici: i condomini non possono indire un’assemblea per proporre modifiche al regolamento o soluzioni più estreme come lo sfratto. E' implicito per tanto che qualsiasi regolamento condominiale volto a derogare la regola generale è nullo.
E' utile precisare che poichè la riforma parla di animali domestici, potrebbero sorgere dubbi su quali sono gli animali effettivamente ammessi all’interno dei condomini: cani e gatti rientrano sicuramente in questa definizione, diversamente potrebbero esserci regolamenti che si oppongono alla presenza di animali esotici.
Le regole che emergono dall'intervento legislativo e da eventuali regolamenti condominiali ad hoc, si concretizzano in vere e proprie regole che i padroni devono rispettare ai fini di tenere l'animale nel condominio:
- Garantire la sicurezza dei condomini e delle persone:
- Il cane deve essere tenuto al guinzaglio all’interno degli spazi comuni, sia all’aperto sia al coperto, e deve
- Utilizzare la museruola se il cane di taglia grande/ aggressivo
- Portare con sé la paletta e la bustina per gli escrementi ai fini di mantenere una corretta igiene e pulizia
2. Obblighi sanitari nei confronti del cane, tra cui:
- Mantenere controllato il cane portandolo dal veterinario e prestando attenzione all’igiene quotidiana;
- Procedere con le vaccinazioni obbligatorie, sverminato e trattato contro parassiti che possono coinvolgere altri condomini/animali
- Registrare il cane all’Anagrafe Canina e avere il microchip.
3. Prestare attenzione agli orari di riposo impegnandosi personalmente a educare e traqnuillizare l'animale.
Nell'ipotesi in cui si verifichi una inadempienza degli obblighi condominiali sarà possibile, in ragione di tutelare ulteriori interessi strettamente legati ai condomini, derogare alla regola generale che non ammette la possibilità di escludere l'animale domestico dal condominio, richiedendone l'estromissione.
L'allontanamento di un animale domestico infatti è possibile solo in condizioni specifiche che si verificano di rado, legate ad un rischio per l'igiene o a patologie dell'animale, che devono essere verificate e documentate dall'Asl o da veterinari privati.

Il termine "sharenting" si riferisce alla pratica dei genitori di condividere costantemente contenuti online riguardanti i propri figli, come foto, video e ecografie. Questo neologismo deriva dall'unione delle parole inglesi "share" (condividere) e "parenting" (genitorialità). La pubblicazione in rete delle foto/video dei propri figli può comportare numerosi rischi che minacciano la privacy e la sicurezza dei minori tra cui: violazione della privacy e della riservatezza dei dati personali anche sensibili; mancata tutela dell’immagine del minore che a causa della permanenza in rete e dell’inevitabile perdita di controllo da parte dei genitore sul contenuto postato può essere utilizzata per fini impropri da parte di terzi (es. pedopornografia, ritorsioni etc); ripercussioni psicologiche sul minore rischiando di ritrovarsi con un'identità digitale costruita su immagini di cui non ha dato il proprio consenso, rischio di adescamento da parte di malintenzionati che possono sfruttare dati ed abitudini dei minori esposti online. Incremento episodi cyberbullismo E’ importante prestare attenzione quando si decide di pubblicare tali contenuti e seguire i suggerimenti forniti dal Garante della privacy tra cui: ✔️rendere irriconoscibile il viso del minore (ad esempio, utilizzando programmi di grafica per "pixellare" i volti) ✔️coprire i volti con una “faccina” emoticon; ✔️limitare le impostazioni di visibilità delle immagini sui social network solo alle persone che si conoscono o che siano affidabili e non le condividano senza permesso nel caso di invio su programma di messagistica istantanea; ✔️evitare la creazione di un account social dedicato al minore; ✔️leggere e comprendere le informative sulla privacy dei social network su cui carichiamo le fotografie.

La retribuzione minima stabilita da un contratto collettivo nazionale sottoscritto dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative non basta a garantire il rispetto del principio di sufficienza e proporzionalità dettato dall’articolo 36 della Costituzione. La Corte di cassazione ha stabilito che anche in presenza di un accordo collettivo, spetta in ogni caso al giudice il potere di valutare la congruità del salario minimo stabilito dalle parti sociali, mediante una verifica costituzionalmente orientata di tale misura. Dalla "corretta lettura" dell’articolo 36 della Costituzione, infatti, la Corte giunge a ricavare il principio secondo cui ciascun lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Secondo la Corte (sentenze 27711 e 27769 del 2 ottobre 2023) l'articolo 36 della Costituzione evidenzia due diritti distinti ma interconnessi: il diritto a una retribuzione " proporzionata " in base alla quantità e qualità del lavoro e il diritto a una retribuzione " sufficiente" che assicuri una vita dignitosa per il lavoratore e la sua famiglia. La valutazione della congruità del salario minimo diventa, quindi, una valutazione flessibile dipendente dal contesto economico e sociale in evoluzione. La Corte ha introdotto un nuovo punto di vista sostenendo che per determinare il salario minimo non si debba considerare solo la soglia di povertà assoluta calcolata dall'Istat ma anche i concetti di sufficienza e proporzionalità. La Corte fa riferimento alla direttiva dell'Unione Europea sui salari adeguati che incoraggia gli Stati membri a garantire non solo i bisogni essenziali ma anche la partecipazione a attività culturali, educative e sociali. La valutazione che il giudice è chiamato a svolgere in merito alla congruità del salario minimo è dunque una valutazione fluida , dipendente dal contesto economico in evoluzione e non cristallizzata in parametri intangibili. Secondo gli Ermellini, quindi, si deve garantire al lavoratore una vita non solo non povera, ma anche dignitosa. In questo senso la Corte fa espresso riferimento alla recente direttiva Ue sui salari adeguati (n. 2022/2041) che sprona gli Stati membri a dotarsi di legislazioni nazionali orientate a garantire non solo il soddisfacimento di meri bisogni essenziali (quali cibo, alloggio, e così via) ma anche la legittima partecipazione ad attività culturali, educative e sociali. La direttiva Ue propone alcuni parametri per adeguare il salario minimo, come il potere d'acquisto dei salari rispetto al costo della vita e la distribuzione dei salari. Questo rappresenta un cambiamento rispetto alla precedente giurisprudenza che si concentrava su parametri come l'indice Istat di povertà o l'importo della Naspi o del reddito di cittadinanza. La Corte di Cassazione invita a valutare con prudenza gli scostamenti dalla contrattazione collettiva, ma le recenti sentenze rischiano di creare incertezza , passando dalla certezza dei contratti collettivi a un potenziale eccesso di discrezionalità nelle aule di tribunale. La massima: "Il giudice può discostarsi dal Contratto collettivo Il giudice deve fare riferimento innanzitutto alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può tuttavia motivatamente discostarsi, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’articolo 36 della Costituzione. Per la determinazione del giusto salario minimo il giudice può usare come parametro la retribuzione stabilita in altri contratti collettivi di settori affini e può fare altresì riferimento a indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla direttiva Ue 2022/2041 del 19 ottobre 2022. Cassazione civile, sez. lavoro, 2 ottobre 2023 n. 27711 e n. 27769" Di altro avviso è il Tribunale di Milano che invece richiama espressamente la "prudenza" nel discostarsi dal salario indicato dal CCNL leader: "Ove la retribuzione prevista nel contratto di lavoro risulti inferiore alla soglia minima di sufficienza in base all’articolo 36 della Costituzione, il giudice adegua la retribuzione secondo i criteri costituzionalmente garantiti, con valutazione discrezionale. Ove però la retribuzione sia prevista da un contratto collettivo, il giudice è tenuto a usare tale discrezionalità con la massima prudenza, cura e attenzione e comunque con adeguata motivazione, giacché difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche, politiche e sindacali sottese all’intero assetto degli interessi concordato dalle parti sociali nel confronto che porta alla stipulazione del contratto collettivo. Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, 21 febbraio 2023
Secondo la Cassazione n. 14760/22 è l egittimo il licenziamento della cassiera di un supermercato che per vincere i premi "cd fedeltà" carica i punti sulla propria carta, quando i clienti abbiano dimenticato o non abbiano proprio la tessera. Il caso A fronte del licenziamento disciplinare subito per i fatti in premessa, la dipendente assumeva a propria difesa la propria estraneità, deducendo che negli orari e nei giorni in cui risultavano eseguiti i fatti, ella si era alzata dalla propria postazione. I giudici di merito respingevano l'impugnazione, facendo gravare sulla dipendente l'onere della prova esimente, ritenendo già comprovata in via documentale la prova della giusta causa, in quanto tale fatto di per sé mina alla radice il rapporto fiduciario anche in ottica futura. Approdati dinanzi al giudice di legittimità, la Cassazione ha concluso per la legittimità della sanzione in funzione anche degli obblighi aziendali discendenti dal particolare rapporto di lavoro esistente tra le parti.T
La Cassazione con ordinanza 5077/2021 rigetta il ricorso della ex moglie ed esclude il diritto all'assegno di divorzio, ribadendo le motivazioni già affermate dai giudici di secondo grado. Le indagini difensive del marito erano infatti in grado di fornire prova del fatto che la donna, nonostante le dimissioni formali al proprio datore di lavoro, continuava a prestare di fatto servizio nello studio professionale. Inoltre i problemi di salujte accusati dalla donna quali impedimenti per costituire forza lavoro autonoma e garantirsi un impiego, non si dimostrano fondati in quanto risulta essere nelle piene capacità lavorative.