Il datore di lavoro deve risarcire il danno biologico al dipendente licenziato e successivamente reintegrato in azienda ma demansionato.
Paolo Mascitelli • 18 marzo 2020
La Cassazione con ordinanza n. 6750/20, a fronte del comprovato demansionamento, ha ritenuto corretta la sentenza impugnata che aveva da un lato riconosciuto il danno biologico del lavoratore ma al contempo escluso il danno da dequalificazione professionale in quanto non provato da elementi neppure indiziari e ciò nonostante il comportamento tenuto dall’azienda che aveva costretto il lavoratore alla inattività.
Cosa si intende per demansionamento?
L’effetto del demansionamento consiste, nel diritto del lavoro, nell’assegnazione al lavoratore di mansioni inferiori rispetto alla sua qualifica di appartenenza o nel non assegnare eventualmente alcuna mansione specifica.
La materia è disciplinata dall'art. 2103 cc. così come riformato dal D.Lgs 81/2015 e mentre prima di tale riforma il legislatore vietava la modifica in peggio delle mansioni e l'irriducibilità della retribuzioni, prevedendo la nullità di ogni patto contrario, nella nuova versione dell'art. 2103 cc si stabilisce che il datore può, in presenza di determinati presupposti, assegnare il lavoratore anche a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale.
A seguito della modifica della norma in questione, pertanto, il controllo del giudice sulla legittimità dell'esercizio dello ius variandi è limitato ad accertare, oltre all'uguaglianza retributiva, che le nuove mansioni appartengano al medesimo livello e categoria in cui è inquadrato il lavoratore.
Chi subisce un demansionamento ha diritto al risarcimento del danno sia patrimoniale che non patrimoniale anche a titolo di danno biologico ma con oneri probatori così riassumibili.
Al datore spetta di dover dimostrare la mancanza assoluta del demansionamento lamentato dal lavoratore, oppure che sussista una valida giustificazione derivante da motivi aziendali o disciplinari, oppure a causa di una impossibilità della prestazione lavorativa a lui non imputabile. Al lavoratore corre l'onere di provare il danno sofferto.
Se per il danno biologico valgono le ordinarie regole inerenti la comprova del nesso eziologico tra inadempimento datoriale e l'insorgenza delle patologie, per il danno da dequalificazione professionale si deve tener conto che esso non ricorre automaticamente in tutti i casi di demansionamento, ma deve anch'esso essere provato dal lavoratore anche facendo ricorso agli elementi indiziari di cui all'art. 2729 c.c., ovvero attraverso l'allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti.
Il lavoratore dovrà quindi fornire elementi quali ad esempio: a) la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta; b) il tipo e la natura della professionalità coinvolta; c) la durata del demansionamento; ,d) la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione (v. ad esempio Corte appello Roma sez. lav., 09/01/2020, n.4097)
Il caso
Il lavoratore vedeva riconosciuta dai giudici l’illegittimità del suo licenziamento, con conseguenza del fatto che una volta rientrato sul posto di lavoro, si trovava a dover fronteggiare ulteriori fatti che ledevano la sua posizione.
A tal proposito il lavoratore chiedeva “il ristoro dei danni subiti per effetto del demansionamento consistente nel non essere stato reintegrato nella posizione di direttore di agenzia in precedenza rivestita.” Secondo i giudici del tribunale, tale richiesta risultava fondata, seppur non ritenendo opportuno il riconoscimento del danno biologico.
I giudici di appello hanno d’altro canto ritenuto che se la domanda non è supportata da elementi concreti caratterizzanti il comportamento illecito, non può essere provato il demansionamento del lavoratore, escludendo quindi il danno alla professionalità. Di diverso avviso risulta essere la Corte d’appello per ciò che concerne il danno biologico lamentato dal lavoratore, in quanto “l’inadempimento del datore di lavoro ha costretto il dipendente, una volta riammesso in servizio, a una sostanziale inattività” con conseguenti patologie.
Il ricorso in Cassazione
Gli Ermellini hanno pertanto confermato la decisione d’appello in merito all'eventuale danno alla professionalità, escludendolo in ragione del fatto che “il lavoratore non ha allegato per il periodo considerato i pregiudizi scaturenti dall’accertato demansionamento.”
La Corte di Cassazione ha considerato ragionevole l’idea di riconoscere il danno biologico subito dal lavoratore dal momento che “tale pregiudizio appare correttamente accertato”, tenendo conto dell’inattività e delle conseguenti patologie accusate dal lavoratore che risultano essere in stretta correlazione con l’avvenuto demansionamento, in linea con quanto testimoniato dalla documentazione medica.

Il termine "sharenting" si riferisce alla pratica dei genitori di condividere costantemente contenuti online riguardanti i propri figli, come foto, video e ecografie. Questo neologismo deriva dall'unione delle parole inglesi "share" (condividere) e "parenting" (genitorialità). La pubblicazione in rete delle foto/video dei propri figli può comportare numerosi rischi che minacciano la privacy e la sicurezza dei minori tra cui: violazione della privacy e della riservatezza dei dati personali anche sensibili; mancata tutela dell’immagine del minore che a causa della permanenza in rete e dell’inevitabile perdita di controllo da parte dei genitore sul contenuto postato può essere utilizzata per fini impropri da parte di terzi (es. pedopornografia, ritorsioni etc); ripercussioni psicologiche sul minore rischiando di ritrovarsi con un'identità digitale costruita su immagini di cui non ha dato il proprio consenso, rischio di adescamento da parte di malintenzionati che possono sfruttare dati ed abitudini dei minori esposti online. Incremento episodi cyberbullismo E’ importante prestare attenzione quando si decide di pubblicare tali contenuti e seguire i suggerimenti forniti dal Garante della privacy tra cui: ✔️rendere irriconoscibile il viso del minore (ad esempio, utilizzando programmi di grafica per "pixellare" i volti) ✔️coprire i volti con una “faccina” emoticon; ✔️limitare le impostazioni di visibilità delle immagini sui social network solo alle persone che si conoscono o che siano affidabili e non le condividano senza permesso nel caso di invio su programma di messagistica istantanea; ✔️evitare la creazione di un account social dedicato al minore; ✔️leggere e comprendere le informative sulla privacy dei social network su cui carichiamo le fotografie.

La retribuzione minima stabilita da un contratto collettivo nazionale sottoscritto dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative non basta a garantire il rispetto del principio di sufficienza e proporzionalità dettato dall’articolo 36 della Costituzione. La Corte di cassazione ha stabilito che anche in presenza di un accordo collettivo, spetta in ogni caso al giudice il potere di valutare la congruità del salario minimo stabilito dalle parti sociali, mediante una verifica costituzionalmente orientata di tale misura. Dalla "corretta lettura" dell’articolo 36 della Costituzione, infatti, la Corte giunge a ricavare il principio secondo cui ciascun lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Secondo la Corte (sentenze 27711 e 27769 del 2 ottobre 2023) l'articolo 36 della Costituzione evidenzia due diritti distinti ma interconnessi: il diritto a una retribuzione " proporzionata " in base alla quantità e qualità del lavoro e il diritto a una retribuzione " sufficiente" che assicuri una vita dignitosa per il lavoratore e la sua famiglia. La valutazione della congruità del salario minimo diventa, quindi, una valutazione flessibile dipendente dal contesto economico e sociale in evoluzione. La Corte ha introdotto un nuovo punto di vista sostenendo che per determinare il salario minimo non si debba considerare solo la soglia di povertà assoluta calcolata dall'Istat ma anche i concetti di sufficienza e proporzionalità. La Corte fa riferimento alla direttiva dell'Unione Europea sui salari adeguati che incoraggia gli Stati membri a garantire non solo i bisogni essenziali ma anche la partecipazione a attività culturali, educative e sociali. La valutazione che il giudice è chiamato a svolgere in merito alla congruità del salario minimo è dunque una valutazione fluida , dipendente dal contesto economico in evoluzione e non cristallizzata in parametri intangibili. Secondo gli Ermellini, quindi, si deve garantire al lavoratore una vita non solo non povera, ma anche dignitosa. In questo senso la Corte fa espresso riferimento alla recente direttiva Ue sui salari adeguati (n. 2022/2041) che sprona gli Stati membri a dotarsi di legislazioni nazionali orientate a garantire non solo il soddisfacimento di meri bisogni essenziali (quali cibo, alloggio, e così via) ma anche la legittima partecipazione ad attività culturali, educative e sociali. La direttiva Ue propone alcuni parametri per adeguare il salario minimo, come il potere d'acquisto dei salari rispetto al costo della vita e la distribuzione dei salari. Questo rappresenta un cambiamento rispetto alla precedente giurisprudenza che si concentrava su parametri come l'indice Istat di povertà o l'importo della Naspi o del reddito di cittadinanza. La Corte di Cassazione invita a valutare con prudenza gli scostamenti dalla contrattazione collettiva, ma le recenti sentenze rischiano di creare incertezza , passando dalla certezza dei contratti collettivi a un potenziale eccesso di discrezionalità nelle aule di tribunale. La massima: "Il giudice può discostarsi dal Contratto collettivo Il giudice deve fare riferimento innanzitutto alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può tuttavia motivatamente discostarsi, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’articolo 36 della Costituzione. Per la determinazione del giusto salario minimo il giudice può usare come parametro la retribuzione stabilita in altri contratti collettivi di settori affini e può fare altresì riferimento a indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla direttiva Ue 2022/2041 del 19 ottobre 2022. Cassazione civile, sez. lavoro, 2 ottobre 2023 n. 27711 e n. 27769" Di altro avviso è il Tribunale di Milano che invece richiama espressamente la "prudenza" nel discostarsi dal salario indicato dal CCNL leader: "Ove la retribuzione prevista nel contratto di lavoro risulti inferiore alla soglia minima di sufficienza in base all’articolo 36 della Costituzione, il giudice adegua la retribuzione secondo i criteri costituzionalmente garantiti, con valutazione discrezionale. Ove però la retribuzione sia prevista da un contratto collettivo, il giudice è tenuto a usare tale discrezionalità con la massima prudenza, cura e attenzione e comunque con adeguata motivazione, giacché difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche, politiche e sindacali sottese all’intero assetto degli interessi concordato dalle parti sociali nel confronto che porta alla stipulazione del contratto collettivo. Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, 21 febbraio 2023
Secondo la Cassazione n. 14760/22 è l egittimo il licenziamento della cassiera di un supermercato che per vincere i premi "cd fedeltà" carica i punti sulla propria carta, quando i clienti abbiano dimenticato o non abbiano proprio la tessera. Il caso A fronte del licenziamento disciplinare subito per i fatti in premessa, la dipendente assumeva a propria difesa la propria estraneità, deducendo che negli orari e nei giorni in cui risultavano eseguiti i fatti, ella si era alzata dalla propria postazione. I giudici di merito respingevano l'impugnazione, facendo gravare sulla dipendente l'onere della prova esimente, ritenendo già comprovata in via documentale la prova della giusta causa, in quanto tale fatto di per sé mina alla radice il rapporto fiduciario anche in ottica futura. Approdati dinanzi al giudice di legittimità, la Cassazione ha concluso per la legittimità della sanzione in funzione anche degli obblighi aziendali discendenti dal particolare rapporto di lavoro esistente tra le parti.T
La Cassazione con ordinanza 5077/2021 rigetta il ricorso della ex moglie ed esclude il diritto all'assegno di divorzio, ribadendo le motivazioni già affermate dai giudici di secondo grado. Le indagini difensive del marito erano infatti in grado di fornire prova del fatto che la donna, nonostante le dimissioni formali al proprio datore di lavoro, continuava a prestare di fatto servizio nello studio professionale. Inoltre i problemi di salujte accusati dalla donna quali impedimenti per costituire forza lavoro autonoma e garantirsi un impiego, non si dimostrano fondati in quanto risulta essere nelle piene capacità lavorative.