Responsabilità medica: la decorrenza dei termini di prescrizione nei danni a "decorso occulto"

Paolo Mascitelli • 14 luglio 2020

Cassazione: in caso di contagio da Epatite C per responsabilità medica, la prescrizione non decorre dal momento in cui la vittima scopre di essere malata, ma nel momento in cui viene a conoscenza del nesso causale tra la malattia e il fatto illecito.

Il caso
Una donna a seguito di una emotrasfusione cui si era sottoposta nel 1983, contraeva un’infezione da virus HCV (Epatite C), di cui verrà a conoscenza solo nel 2008 a causa di una precipitazione della sua situazione clinica, per anni silente o poco rilevante.
Nel periodo intercorso tra il 1983 e 2007, gli esami cui si era sottoposta evidenziavano soltanto un’alterazione di alcuni valori ematici, senza quindi permettere una diagnosi precisa e permettere di cogliere il nesso eziologico della malattia.
L’effettiva riconducibilità all’evento dannoso avvenne in definitiva nel 2008: solo in tale occasione la vittima seppe ufficialmente di essere ammalata di Epatite C e che la causa di tale malattia fosse effettivamente la trasfusione avvenuta nel 1983.

Che cos’è la prescrizione?
La prescrizione è un istituto giuridico che comporta l’estinzione di un diritto di cui si dispone a causa del decorrere del tempo e dell’inerzia del titolare. L’ordinamento prevede quali sono gli elementi necessari ai fini dell'istituto:

  • la disponibilità del diritto
  • l’inerzia del titolare del diritto
  • il termine di decorrenza

Il termine di prescrizione ordinario è di dieci anni, precisando il fatto che non sono soggetti a prescrizione i diritti indisponibili, il diritto di proprietà, le azioni in materia familiare, l’azione che permette di dichiarare la nullità di negozi giuridici. Tale termine è quinquennale per i diritti risarcitori da responsabilità extra contrattuale.
Per quanto concerne la fattispecie in questione, l'art 2947 puntualizza che il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in cinque anni dal giorno in cui il fatto si è verificato.
La prescrizione, ai sensi dell’art 2935 cc, decorre dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere e può interrompersi nel momento in cui il titolare lo rivendica in modo formale, attraverso ogni sollecito o azione giudiziaria volta a interrompere la prescrizione; il termine quindi viene sospeso e inizia a decorrere nuovamente ex novo a partire dal giorno successivo.

I motivi del ricorso
La vittima del caso in commento ricorre in Cassazione a seguito di due sentenze rispettivamente del 2016 del Tribunale di Milano e del 2017 della Corte d’Appello, le quali, ritenendo prescritta la domanda azionata a titolo risarcitorio, statuivano in termini negativi per l'attrice stessa. 
Il Ministero della Salute ripercorrendo l'iter cronologico degli eventi che vedevano coinvolta la donna dal 1983, anno della trasfusione, sottolineava l'importanza degli accertamenti compiuti dalla donna nel periodo dal 1991 e 2007, i quali riportavano già evidenze cliniche riconducibili alla malattia e che ponevano già la parte lesa nella condizione di conoscere la propria condizione di salute.
La Corte d'Appello ribadiva la fondatezza di tale assunto difensivo di parte convenuta e la statuizione veniva quindi impugnata per Cassazione,  con ricorso fondato sull'assunto che il diritto al risarcimento del danno da emotrasfusione infetta, sia considerato alla stregua dei danni considerati a “decorso occulto”, ragion per cui, il decorso non dovrà avvenire dal momento il cui l’illecito si è verificato, ma dal momento in cui il danneggiato potrà percepire sia l’esistenza, sia il nesso causale tra fatto ingiusto commesso da un terzo ed certezza clinica.
Sulla scorta di tali deduzioni, la donna non demordeva, reiterando così anche presso il giudice di legittimità la domanda risarcitoria avverso il Ministero della Salute, sottolineando la violazione degli articoli 2043, 2953 e 2947 da parte dei giudici di primo e secondo grado.

La decisione della Corte
Gli Ermellini con sentenza n. 14480/2020 si sono espressi sostenendo che la Corte d'Appello è effettivamente incorsa nel vizio di falsa applicazione dell'articolo 2935 cc- "Decorrenza della prescrizione"- in quanto il "dies a quo" per il calcolo della prescrizione per rivendicare il proprio diritto non sarà né il giorno dell'avvenuto contagio né il momento nel quale la parte lesa è venuta a conoscenza della malattia se, dalle analisi effettuate, non vi è la certezza assoluta di poter collegare i propri sintomi al fatto illecito commesso nel 1983.
Pertanto, nonostante tutti gli elementi ottenuti da accertamenti compiuti dalla vittima consentissero di affermare che la paziente fosse a conoscenza di essere ammalata, da nessuno di essi può emergere che oltre a sapere della patologia, potesse essere a conoscenza, con l'uso del'ordinaria diligenza esigibile dal cittadino medio, che la causa fosse riconducibile proprio alla emotrasfusione eseguita negli anni precedenti.
La Cassazione conclude: "L’accertamento del momento in cui ad un paziente viene resa nota l'esistenza della sua malattia, da solo, non è sufficiente per desumerne che a partire da quel momento il paziente sia anche consapevole della causa della malattia. Pertanto, in mancanza di ulteriori elementi, l'exordium praescriptionis del diritto al risarcimento del danno consistito nella contrazione di una malattia infettiva, causata da un fatto illecito, non può farsi decorrere dal momento della sola comunicazione al paziente dell'esistenza della malattia".

In definitiva, al Ministero della Salute  ai sensi dell'art 2035 - "risarcimento per fatto illecito", spetterà l'onere di indennizzare la vittima per fatto illecito realizzato attraverso l'emotrasfusione avvenuta nel 1983 e accertata solo nel 2008, quale causa della attuale patologia accusata dalla parte lesa.
Scarica sent. 14480/2020 Cassazione
Autore: Avv. Veronica Luperini 2 novembre 2023
Il termine "sharenting" si riferisce alla pratica dei genitori di condividere costantemente contenuti online riguardanti i propri figli, come foto, video e ecografie. Questo neologismo deriva dall'unione delle parole inglesi "share" (condividere) e "parenting" (genitorialità). La pubblicazione in rete delle foto/video dei propri figli può comportare numerosi rischi che minacciano la privacy e la sicurezza dei minori tra cui: violazione della privacy e della riservatezza dei dati personali anche sensibili; mancata tutela dell’immagine del minore che a causa della permanenza in rete e dell’inevitabile perdita di controllo da parte dei genitore sul contenuto postato può essere utilizzata per fini impropri da parte di terzi (es. pedopornografia, ritorsioni etc); ripercussioni psicologiche sul minore rischiando di ritrovarsi con un'identità digitale costruita su immagini di cui non ha dato il proprio consenso, rischio di adescamento da parte di malintenzionati che possono sfruttare dati ed abitudini dei minori esposti online. Incremento episodi cyberbullismo E’ importante prestare attenzione quando si decide di pubblicare tali contenuti e seguire i suggerimenti forniti dal Garante della privacy tra cui: ✔️rendere irriconoscibile il viso del minore (ad esempio, utilizzando programmi di grafica per "pixellare" i volti) ✔️coprire i volti con una “faccina” emoticon; ✔️limitare le impostazioni di visibilità delle immagini sui social network solo alle persone che si conoscono o che siano affidabili e non le condividano senza permesso nel caso di invio su programma di messagistica istantanea; ✔️evitare la creazione di un account social dedicato al minore; ✔️leggere e comprendere le informative sulla privacy dei social network su cui carichiamo le fotografie.
Autore: Paolo Mascitelli 30 ottobre 2023
La retribuzione minima stabilita da un contratto collettivo nazionale sottoscritto dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative non basta a garantire il rispetto del principio di sufficienza e proporzionalità dettato dall’articolo 36 della Costituzione. La Corte di cassazione ha stabilito che anche in presenza di un accordo collettivo, spetta in ogni caso al giudice il potere di valutare la congruità del salario minimo stabilito dalle parti sociali, mediante una verifica costituzionalmente orientata di tale misura. Dalla "corretta lettura" dell’articolo 36 della Costituzione, infatti, la Corte giunge a ricavare il principio secondo cui ciascun lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Secondo la Corte (sentenze 27711 e 27769 del 2 ottobre 2023) l'articolo 36 della Costituzione evidenzia due diritti distinti ma interconnessi: il diritto a una retribuzione " proporzionata " in base alla quantità e qualità del lavoro e il diritto a una retribuzione " sufficiente" che assicuri una vita dignitosa per il lavoratore e la sua famiglia. La valutazione della congruità del salario minimo diventa, quindi, una valutazione flessibile dipendente dal contesto economico e sociale in evoluzione. La Corte ha introdotto un nuovo punto di vista sostenendo che per determinare il salario minimo non si debba considerare solo la soglia di povertà assoluta calcolata dall'Istat ma anche i concetti di sufficienza e proporzionalità. La Corte fa riferimento alla direttiva dell'Unione Europea sui salari adeguati che incoraggia gli Stati membri a garantire non solo i bisogni essenziali ma anche la partecipazione a attività culturali, educative e sociali. La valutazione che il giudice è chiamato a svolgere in merito alla congruità del salario minimo è dunque una valutazione fluida , dipendente dal contesto economico in evoluzione e non cristallizzata in parametri intangibili. Secondo gli Ermellini, quindi, si deve garantire al lavoratore una vita non solo non povera, ma anche dignitosa. In questo senso la Corte fa espresso riferimento alla recente direttiva Ue sui salari adeguati (n. 2022/2041) che sprona gli Stati membri a dotarsi di legislazioni nazionali orientate a garantire non solo il soddisfacimento di meri bisogni essenziali (quali cibo, alloggio, e così via) ma anche la legittima partecipazione ad attività culturali, educative e sociali. La direttiva Ue propone alcuni parametri per adeguare il salario minimo, come il potere d'acquisto dei salari rispetto al costo della vita e la distribuzione dei salari. Questo rappresenta un cambiamento rispetto alla precedente giurisprudenza che si concentrava su parametri come l'indice Istat di povertà o l'importo della Naspi o del reddito di cittadinanza. La Corte di Cassazione invita a valutare con prudenza gli scostamenti dalla contrattazione collettiva, ma le recenti sentenze rischiano di creare incertezza , passando dalla certezza dei contratti collettivi a un potenziale eccesso di discrezionalità nelle aule di tribunale. La massima: "Il giudice può discostarsi dal Contratto collettivo Il giudice deve fare riferimento innanzitutto alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può tuttavia motivatamente discostarsi, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall’articolo 36 della Costituzione. Per la determinazione del giusto salario minimo il giudice può usare come parametro la retribuzione stabilita in altri contratti collettivi di settori affini e può fare altresì riferimento a indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla direttiva Ue 2022/2041 del 19 ottobre 2022. Cassazione civile, sez. lavoro, 2 ottobre 2023 n. 27711 e n. 27769" Di altro avviso è il Tribunale di Milano che invece richiama espressamente la "prudenza" nel discostarsi dal salario indicato dal CCNL leader: "Ove la retribuzione prevista nel contratto di lavoro risulti inferiore alla soglia minima di sufficienza in base all’articolo 36 della Costituzione, il giudice adegua la retribuzione secondo i criteri costituzionalmente garantiti, con valutazione discrezionale. Ove però la retribuzione sia prevista da un contratto collettivo, il giudice è tenuto a usare tale discrezionalità con la massima prudenza, cura e attenzione e comunque con adeguata motivazione, giacché difficilmente è in grado di apprezzare le esigenze economiche, politiche e sindacali sottese all’intero assetto degli interessi concordato dalle parti sociali nel confronto che porta alla stipulazione del contratto collettivo. Tribunale di Milano, Sezione Lavoro, 21 febbraio 2023 
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C orte di Cassazione , Sezione 4 , Penale , Sentenza 21 settembre 2022  n. 34943
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Alla ricerca di una soluzione al problema di conformità.
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Secondo la Cassazione n. 14760/22 è l egittimo il licenziamento della cassiera di un supermercato che per vincere i premi "cd fedeltà" carica i punti sulla propria carta, quando i clienti abbiano dimenticato o non abbiano proprio la tessera. Il caso A fronte del licenziamento disciplinare subito per i fatti in premessa, la dipendente assumeva a propria difesa la propria estraneità, deducendo che negli orari e nei giorni in cui risultavano eseguiti i fatti, ella si era alzata dalla propria postazione. I giudici di merito respingevano l'impugnazione, facendo gravare sulla dipendente l'onere della prova esimente, ritenendo già comprovata in via documentale la prova della giusta causa, in quanto tale fatto di per sé mina alla radice il rapporto fiduciario anche in ottica futura. Approdati dinanzi al giudice di legittimità, la Cassazione ha concluso per la legittimità della sanzione in funzione anche degli obblighi aziendali discendenti dal particolare rapporto di lavoro esistente tra le parti.T 
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